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October 28, 2025

Le parole che spostano le bombe

Come la comunicazione costruisce (o demolisce) il consenso per la violenza

Stamattina ho aperto il telefono e ho visto un’altra immagine che non riesco a togliermi dalla testa. Un altro titolo che racconta la stessa storia con parole diverse. “Assalto all’ospedale” su Repubblica. “Operazione militare” su un altro giornale. “Attacco” su un terzo.

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La stessa azione. Tre narrative. E mi sono chiesto: in quale di queste tre realtà viviamo?

Poi ho scrollato LinkedIn. Un collega aveva postato: “BOMBA! 💣 Nuova strategia di marketing che spacca tutto!”. Un altro: “Questa campagna è una bombetta, ha fatto esplodere il mercato”. Un terzo parlava di “strategie killer” e “contenuti che colpiscono nel segno”.

E lì ho capito quanto siamo dentro. Quanto abbiamo normalizzato.

Dovrei parlarvi di storytelling, di tecniche, di case study. Di come costruire campagne che vendono, di insight che funzionano, di creatività che converte. È il mio lavoro. È quello che faccio ogni giorno.

Ma come faccio quando ogni giorno vedo le stesse tecniche - esattamente le stesse - usate per costruire il consenso attorno all’orrore? Come faccio a continuare a insegnare framing e eufemismi e funzionalizzazione quando vedo questi strumenti usati per disumanizzare, per giustificare, per far sembrare accettabile l’inaccettabile?

E soprattutto: come faccio a non vedere la connessione tra quel “BOMBA!” su LinkedIn e le bombe vere che cadono mentre scrivo queste righe?

Poi ho capito. Non è che non abbia senso quello che faccio. È che il senso deve cambiare. Se conosco le tecniche, posso smascherarle. Se capisco il meccanismo, posso insegnare agli altri a vederlo. E se riesco a far vedere quanto siamo immersi in un linguaggio che normalizza la violenza - anche quando vendiamo scarpe o corsi online - forse posso contribuire a cambiare qualcosa.

Non è il momento di distogliere lo sguardo. È il momento di affinare l’occhio.

Fondamenta: L’Architettura del Consenso
Come si costruisce il consenso per la violenza

Nel 1988, Noam Chomsky ed Edward Herman pubblicarono “Manufacturing Consent” - uno studio che dimostrava una cosa inquietante: “I mass media in democrazie liberali fungono da potenti istituzioni ideologiche che svolgono una funzione di propaganda a sostegno del sistema, facendo affidamento sulle forze di mercato, sulle assunzioni interne e sull’autocensura, senza coercizione palese”.

Non complotti. Non censura governativa diretta. Solo un sistema che si autoalimenta attraverso cinque filtri fondamentali:

1. Proprietà e orientamento al profitto: I media appartengono a conglomerati multinazionali. L’informazione diventa prodotto, non servizio pubblico.

2. Dipendenza dalla pubblicità: Chi paga (gli inserzionisti) decide cosa è pubblicabile e cosa no. Non serve censura esplicita - basta la paura di perdere un contratto.

3. Affidamento su fonti ufficiali: Governo, aziende, “esperti” certificati diventano le uniche voci autorevoli. Il resto è “non verificato”.

4. Flak: Critiche organizzate contro chi devia dalla narrativa dominante. Non ti censurano - ti fanno passare per inaffidabile.

5. Anticomunismo (oggi: qualsiasi ideologia-spauracchio del momento): L’uso di un nemico comune per giustificare qualsiasi azione.

Il modello funziona perché è invisibile. Non c’è un Grande Fratello che ti dice cosa pensare. C’è solo un sistema di incentivi che rende certe narrative “naturali” e altre “estreme”.

Ed è qui che entra in gioco il linguaggio.

Perché prima di costruire il consenso per un’azione, devi costruire il linguaggio che la rende pensabile. Devi trasformare “abbiamo ucciso civili” in qualcosa che suona diverso.

L’evoluzione del linguaggio bellico lo dimostra perfettamente:

Da “bombing” a “kinetic action” (azione cinetica)

Da “killing civilians” a “collateral damage” (danno collaterale)

Da “invasion” a “special military operation” (operazione militare speciale)

Da “occupied territories” a “disputed areas” (aree controverse)

L’uso di “collateral damage” serve a una funzione precisa: minimizzare le vittime civili e facilitare l’accettazione pubblica di azioni militari problematiche. Non è un errore. È ingegneria linguistica.

Come dice Chomsky: funziona “facendo affidamento sulle forze di mercato, sulle assunzioni interne e sull’autocensura, senza coercizione palese”.

Non ti dicono cosa pensare. Ti danno le parole con cui pensare. E le parole determinano i pensieri possibili.

Osservatorio: La Stessa Storia, Tre Verità
Analisi comparativa del framing mediatico

Prendiamo lo stesso evento. Un bombardamento a Gaza. Come viene raccontato dipende da chi lo racconta. Non i fatti - quelli sono gli stessi. Ma le parole che li descrivono cambiano tutto.

Ecco cosa emerge dall’analisi comparativa dei media internazionali sul conflitto israelo-palestinese:

La Tabella dell’Invisibilità

Guardate la prima riga: “militants” e “fighters”.

Questa è quella che la ricerca chiama “funzionalizzazione”. Non sei più Ahmad, 34 anni, padre di tre figli, insegnante di matematica. Sei un “militant”. La tua identità complessa viene ridotta a una funzione: quella che giustifica la tua morte.

E notate quando questa funzionalizzazione avviene: quasi sempre quando si annuncia una morte. “Israeli forces killed three militants” suona diverso da “Israeli forces killed Ahmad, Mahmoud and Khaled”. La prima è un’operazione. La seconda è un’uccisione.

Seconda riga: il territorio che scompare.

I media occidentali usano “occupied” per West Bank e Gaza. Ma non per Gerusalemme Est. Non per le Alture del Golan. Interi pezzi di geografia spariscono dal linguaggio. E se spariscono dal linguaggio, spariscono dalla coscienza.

Terza riga: chi è soggetto e chi è oggetto.

“Dozens died in clashes” vs “Israeli forces killed dozens of Palestinians”. Stessa morte, grammatica diversa. Nella prima, la morte “accade”. Nella seconda, qualcuno la causa.

Un giornale italiano titola: “Assalto all’ospedale”. Un altro: “Operazione militare in ospedale”. Un terzo: “Raid su struttura sanitaria”. Tutti stanno descrivendo lo stesso evento. Ma quale titolo hai letto determina chi è l’aggressore e chi la vittima.

Il Caso dell’Overton Window
C’è un concetto affascinante in teoria della comunicazione: la Finestra di Overton. È la gamma di idee che, in un dato momento storico, sono considerate politicamente accettabili dalla popolazione mainstream.

Tutto ciò che sta dentro la finestra è “sensato”, “moderato”, “ragionevole”. Tutto ciò che sta fuori è “estremo”, “radicale”, “impensabile”.

Ma la finestra si muove.

Idee che due anni fa erano “unspeakable” oggi vengono dette da funzionari di governo europei. La richiesta di “Free Palestine from the river to the sea” - considerata estremista nel 2020 - oggi compare in dichiarazioni ufficiali di rappresentanti istituzionali.

Non perché i fatti sono cambiati. Ma perché la pressione sociale, il dibattito pubblico, la visibilità di certe immagini hanno spostato i confini dell’accettabile.

La finestra si muove. E quando si muove, improvvisamente certe parole diventano pensabili. Certe domande diventano legittime. Certe narrative diventano mainstream.

È un meccanismo che noi pubblicitari conosciamo bene. Lo usiamo ogni volta che cerchiamo di spostare la percezione di un brand da “di nicchia” a “mainstream”. Solo che qui, le conseguenze non sono vendite. Sono vite.

La Lezione per Noi Comunicatori
Guardate cosa succede. Non stanno mentendo sui fatti. Stanno scegliendo quali fatti raccontare e con quali parole.

È esattamente quello che facciamo noi quando costruiamo una campagna. Enfatizziamo alcuni elementi, ne omettiamo altri. Scegliamo le parole con cura. Creiamo contrasto. Funzionalizziamo.

La differenza è che noi lo facciamo per vendere olio d’oliva o scarpe da ginnastica.

Loro lo fanno per costruire il consenso su chi merita di vivere e chi no.

Il Caso McDonald’s: Quando il Silenzio Costa $7 Miliardi
Brand positioning e le sue conseguenze

Parliamo di numeri concreti.

McDonald’s ha perso circa $7 miliardi di dollari a causa di campagne di boicottaggio legate al conflitto israelo-palestinese.

Sette. Miliardi. Di dollari.

Non è attivismo sentimentale. È matematica economica brutale. Il brand positioning su temi etici ha conseguenze misurabili, tangibili, che compaiono nei bilanci trimestrali.

Ma c’è un paradosso interessante: McDonald’s non ha preso una posizione esplicita. Ha cercato di restare neutrale. Ha provato a “non parlare di politica”.

E proprio questo gli è costato $7 miliardi.

Perché nell’epoca dei social media, la neutralità non esiste più. Anche il silenzio è una posizione. Anche “non vogliamo parlare di politica” è una scelta politica. L’unica differenza è che fingendo neutralità, scontenti tutti: chi vorrebbe una presa di posizione chiara E chi vorrebbe che tu tacessi davvero.

Il Modello di Propaganda applicato al Corporate
Torniamo a Chomsky. Ricordate i cinque filtri? Funzionano benissimo anche per capire il dilemma dei brand:

Filtro 1 - Orientamento al profitto: I brand devono massimizzare il valore per gli azionisti. Prendere posizione significa rischiare di alienare una fetta di mercato.

Filtro 2 - Dipendenza dalla pubblicità: I brand si allineano ai loro inserzionisti e partner. Dire qualcosa di “scomodo” significa rischiare partnership miliardarie.

Filtro 3 - Affidamento a fonti ufficiali: I brand comunicano basandosi su fonti “sicure”, governative, certificate. Per evitare rischi legali, reputazionali, finanziari.

Come dice la ricerca: “La dipendenza dagli inserzionisti crea una dinamica di potere che favorisce il finanziatore, portando i media a evitare contenuti che potrebbero turbare gli inserzionisti”.

Ora sostituite “media” con “brand”. Sostituite “inserzionisti” con “stakeholder, partner, mercati”.

Capite perché McDonald’s ha perso $7 miliardi provando a non scegliere?

Il Dilemma Etico del Comunicatore
Questo pone noi - professionisti della comunicazione - di fronte a una scelta impossibile:

Opzione A: Allinearsi alla narrativa dominante, proteggere il cliente, evitare rischi. Fare il nostro lavoro “professionale”.

Opzione B: Onorare un imperativo etico di verità, di complessità, di umanità. E rischiare critiche, boicottaggi, perdita di clienti.

Non è una scelta teorica. È la scelta che facciamo ogni volta che scriviamo un brief, che presentiamo una strategia, che consigliamo un cliente su “cosa dire” riguardo a temi sensibili.

E la verità scomoda è questa: non esiste più la terza opzione del “restiamo fuori”. Quella è morta con i social media e con una generazione che pretende posizionamento etico dai brand.

McDonald’s ha provato la terza opzione. Gli è costata $7 miliardi.

Eliminiamo il Linguaggio Bellico dal Marketing
Quando la metafora diventa normalizzazione

C’è una cosa che mi fa venire il voltastomaco da almeno un anno. La vedo ogni giorno su LinkedIn. La vedo nelle mail dei clienti. La vedo nelle presentazioni delle agenzie.

“BOMBA! 💣 Nuova strategia che spacca!”

“Questa campagna è una bombetta!”

“Contenuti killer che colpiscono nel segno!”

“Strategia esplosiva!”

“Abbiamo fatto un casino, abbiamo distrutto la concorrenza!”

E ogni volta penso: davvero? Davvero non ti rendi conto di quello che stai dicendo? Davvero mentre cadono bombe vere su persone vere, tu continui a usare “bomba” per dire che un post ha avuto engagement?

O peggio: ti sei talmente normalizzato che non vedi nemmeno più la connessione?

La Metafora Che Diventa Realtà
Il linguaggio bellico nel marketing non è nuovo. Da decenni parliamo di “target”, “campagne”, “strategie d’attacco”, “conquistare mercati”, “guerra dei prezzi”.

Ma c’è una differenza tra usare metafore belliche quando le guerre sono lontane e astratte, e usarle quando le guerre sono in diretta streaming sui nostri feed.

Quando dici “bomba” per celebrare una nuova funzionalità, stai normalizzando la parola. Stai dissociando “bomba” dalla sua realtà fisica - bambini morti, edifici distrutti, famiglie spazzate via.

Stai facendo esattamente quello che fanno i militari quando dicono “collateral damage” invece di “abbiamo ucciso civili”. Stai creando distanza linguistica dalla violenza reale.

Non È Sensibilità. È Consapevolezza.
Lo so cosa state pensando alcuni di voi: “Ma dai, è solo un’espressione. Non possiamo più dire niente? Ora dobbiamo censurare anche le metafore?”

No. Non è censura. È consapevolezza.

È rendersi conto che le parole che usiamo costruiscono il mondo che abitiamo. Che quando normalizziamo il linguaggio della violenza - anche come metafora - stiamo contribuendo a una cultura che rende la violenza più pensabile, più accettabile, più “naturale”.

Pensateci: se “bomba” diventa sinonimo di “successo”, cosa stiamo dicendo sul successo? Se “killer” significa “efficace”, cosa stiamo dicendo sull’efficacia? Se “distruggere la concorrenza” è un obiettivo aziendale, cosa stiamo normalizzando?

L’Invito
Da oggi, da questa newsletter, vi chiedo una cosa semplice: eliminate il linguaggio bellico dal vostro marketing.

Non dite “bomba”. Dite “successo straordinario”. Non dite “killer”. Dite “estremamente efficace”. Non dite “distruggiamo la concorrenza”. Dite “superiamo la concorrenza”. Non dite “strategia d’attacco”. Dite “strategia di crescita”.

Non è politicamente corretto. È professionalmente consapevole.

Perché noi lavoriamo con le parole. E le parole costruiscono mondi. E se continuiamo a usare parole di violenza per descrivere il successo, stiamo costruendo un mondo dove la violenza è sinonimo di successo.

E poi ci stupiamo quando qualcuno costruisce il consenso per la violenza vera usando gli stessi meccanismi.

Strumenti: Il Decoder della Propaganda
Come riconoscere la manipolazione linguistica (e smettere di usarla)

Non possiamo smettere di lavorare. Ma possiamo imparare a vedere. E possiamo insegnare agli altri a vedere.

Ecco il toolkit pratico per decodificare la propaganda - e per riconoscere quando la stiamo usando noi stessi:

Le 5 Tecniche di Manipolazione Linguistica
1. EUFEMISMO/DOWNPLAYING
Cosa fa: Usa termini attenuati per minimizzare responsabilità o violenza

Esempi bellici:

“collateral damage” invece di “civili uccisi”

“kinetic action” invece di “bombardamento”

“neutralize target” invece di “uccidere persona”

Esempi nel marketing:

“ottimizzazione della forza lavoro” invece di “licenziamenti”

“crescita negativa” invece di “perdite”

“prezzo premium” invece di “costoso”

Come riconoscerlo: Quando la parola usata è più tecnica/fredda del fatto che descrive

Il test: Se tua nonna non capirebbe cosa intendi, stai usando un eufemismo

2. FUNZIONALIZZAZIONE/DISUMANIZZAZIONE
Cosa fa: Definisce persone solo per una funzione negativa, rimuovendo la loro identità complessa

Esempi bellici:

“militants”, “combatants”, “fighters” invece di nomi propri

“target eliminated” invece di “persona uccisa”

Esempi nel marketing:

“consumatori” invece di “persone”

“target demographic” invece di “esseri umani con vite complesse”

“utenti” invece di “individui”

Come riconoscerlo: Quando le persone diventano categorie, funzioni, numeri

Il test: Prova a sostituire la categoria con “mio figlio” o “mia madre”. Se suona assurdo, stai disumanizzando.

3. ENFASI/OMISSIONE
Cosa fa: Ingrandisce alcuni eventi, nasconde il contesto storico

Esempi bellici:

Focus ossessivo sul 7 ottobre 2023, silenzio su 75 anni di storia

“Israel has the right to defend itself” (enfasi), silenzio su cosa stava succedendo prima dell’attacco (omissione)

Esempi nel marketing:

Enfatizzare il 50% di sconto, omettere che hai alzato i prezzi del 100% la settimana prima

Enfatizzare “ingredienti naturali”, omettere processi industriali

Come riconoscerlo: Quando ti danno l’albero ma nascondono la foresta

Il test: Chiedi “cosa NON mi stanno dicendo?” Se la risposta cambia tutto, hai trovato l’omissione.

4. OTHERING/DEMONIZZAZIONE
Cosa fa: Enfatizza le “cattive azioni” dell’outgroup per creare contrasto con l’ingroup virtuoso

Esempi bellici:

“Opulenza dei leader di Hamas” vs “miseria della popolazione di Gaza” (enfasi su cattive azioni outgroup)

“They use human shields” (loro sono cattivi) vs “We minimize civilian casualties” (noi siamo buoni)

Esempi nel marketing:

“I nostri competitor usano ingredienti scadenti” (loro cattivi) vs “Noi usiamo solo eccellenza” (noi buoni)

Brand activism che demonizza chi non si allinea

Come riconoscerlo: Quando il contrasto è sempre a senso unico, quando l’altro è sempre e solo negativo

Il test: Prova a invertire soggetto e oggetto. Se il messaggio diventa assurdo, c’è othering.

5. ASIMMETRIA TERMINOLOGICA
Cosa fa: Usa parole diverse per azioni identiche a seconda di chi le compie

Esempi bellici:

“Israeli soldiers killed” vs “Palestinians died”

“Terrorist attack” vs “Military operation”

“Occupation” vs “Disputed territories”

Esempi nel marketing:

“Noi innoviamo” vs “Loro copiano”

“Nostri prezzi accessibili” vs “Loro economici/cheap”

“Nostra ispirazione” vs “Loro plagio”

Come riconoscerlo: Quando chi fa cosa cambia la parola usata per descrivere l’azione

Il test della reversibilità: Inverti i soggetti. Se il messaggio non regge più, hai trovato l’asimmetria.

Il Test della Reversibilità (L’Esercizio Pratico)
Questo è lo strumento più potente che abbiamo. Funziona per la propaganda bellica, ma funziona anche per il nostro marketing.

Come funziona:

Prendi un messaggio/titolo/headline

Inverti i soggetti

Leggi la versione invertita

Se suona assurda o offensiva, hai trovato il bias

Esempio bellico:

Originale: “Israel responds to Hamas attack with precision strikes”

Invertito: “Hamas responds to Israeli attack with precision strikes”

Se il secondo ti suona assurdo ma sono la stessa azione grammaticale, c’è asimmetria

Esempio marketing:

Originale: “Ci ispiriamo ai migliori per creare innovazione”

Invertito: “I competitor ci copiano per creare i loro prodotti”

Se descrivi la stessa azione (guardare cosa fanno altri) con parole opposte, stai manipolando

Il Mini-Brief della Settimana
L’Esercizio del Decoder:

Questa settimana, fai questo:

Scegli 3 articoli sullo stesso evento da 3 testate diverse (una occidentale, una mediorientale, una che consideri “neutrale”)

Per ognuno, identifica:

Quale tecnica di manipolazione usa (vedi toolkit sopra)

Chi viene funzionalizzato (ridotto a categoria)

Cosa viene enfatizzato e cosa omesso

Quale eufemismo viene usato

Se passerebbe il Test della Reversibilità

Poi fai lo stesso con il tuo lavoro:

Prendi l’ultima campagna/copy/strategia che hai fatto

Applicale lo stesso decoder

Quali tecniche hai usato?

Erano necessarie o erano manipolazione?

Non per giudicare la testata. Non per giudicarti. Per affinare l’occhio.

Perché un creativo che sa riconoscere la manipolazione è un creativo più responsabile. Sia quando analizza i media, sia quando crea per i clienti.

Intelligenza Artigianale: Il Panopticon Digitale
Quando l’algoritmo decide cosa è vero

C’è una nuova forma di censura che non somiglia per niente alla censura del Novecento. Non ci sono libri bruciati, giornalisti arrestati, media chiusi con la forza.

C’è qualcosa di molto più subdolo: il silenzio algoritmico.

La ricerca lo chiama “demotizzazione”: “Piattaforme come Instagram hanno demotizzato (ridotto la portata), cancellato didascalie senza avviso e negato agli utenti l’opzione di appello sui contenuti relativi al conflitto”.

Non ti bannano. Non ti censurano ufficialmente. Semplicemente... non fai più reach.

I tuoi contenuti circolano meno. Le visualizzazioni crollano. L’engagement sparisce. E se chiedi spiegazioni, nessuna risposta. Nessun appello possibile. Solo il silenzio.

È quello che viene chiamato “pixelated propaganda” - la censura attraverso gli algoritmi.

Il Citizen Journalism Come Resistenza
Ma c’è un contronarrazione affascinante.

I social media - le stesse piattaforme che censurano - hanno anche creato qualcosa di rivoluzionario: il citizen journalism palestinese, definito dalla ricerca come “l’ultimo testimone”.

Persone comuni che, con lo smartphone, documentano in tempo reale. Niente troupe televisive, niente corrispondenti embedded, niente filtri editoriali. Solo la realtà grezza, immediata, non mediata.

Questo ha cambiato tutto. Perché per la prima volta nella storia, le vittime di un conflitto possono raccontare la propria storia direttamente, senza passare dai media tradizionali che applicano i loro cinque filtri.

Gli algoritmi possono limitare la portata. Possono shadowbannare. Possono demotizzare. Ma non possono cancellare completamente il fatto che qualcuno, da qualche parte, ha visto. Ha documentato. Ha testimoniato.

La Domanda Che Resta
Se l’AI decide cosa amplificare e cosa nascondere, chi programma l’AI decide cosa è vero?

Non nel senso filosofico. Nel senso pratico: se un contenuto viene visto da 100.000 persone o da 100 persone non dipende dalla sua qualità o rilevanza. Dipende da cosa l’algoritmo decide di amplificare.

E gli algoritmi non sono neutri. Sono programmati da persone, finanziate da aziende, che operano in sistemi economici con interessi specifici.

È il Modello di Propaganda di Chomsky applicato all’era digitale. I cinque filtri non sono scomparsi - si sono trasformati in codice.

E noi, professionisti della comunicazione, siamo dentro questo sistema. Lo usiamo ogni giorno. Ottimizziamo per gli algoritmi. “Hacky” l’engagement. Giochiamo con la reach.

Fino a quando l’algoritmo decide che quello che abbiamo da dire non è più conveniente amplificare.

Did You Know?
Il termine “collateral damage” fu coniato durante la Guerra del Vietnam, quando l’esercito USA cercava un modo per rendere “accettabili” le vittime civili nei bombardamenti.

Prima si diceva semplicemente “abbiamo ucciso civili”. Poi qualcuno scoprì che cambiando le parole cambiava anche la percezione pubblica. “Collateral damage” suona tecnico, inevitabile, quasi neutro. Come un effetto collaterale di un medicinale.

Ma dietro quel termine ci sono persone. Bambini. Famiglie. Vite.

Non è propaganda di regime totalitario. È ingegneria linguistica in democrazia liberale.

Ed è esattamente lo stesso meccanismo che usiamo noi quando trasformiamo:

“costoso” in “premium”

“piccolo” in “essenziale”

“copiato” in “ispirato”

“licenziamenti” in “ottimizzazione”

La differenza è cosa c’è dietro l’eufemismo. Nel nostro caso, strategie di vendita. Nel loro caso, cadaveri.

Ma il meccanismo - quello - è identico.

Prima di salutarci: La Domanda di Mio Figlio
Ve lo dico subito: sono stato shadowbannato.

Due reel su Gaza. Un exploit incredibile - migliaia di visualizzazioni in poche ore, engagement altissimo, centinaia di messaggi privati di persone che mi ringraziavano per aver detto quello che pensavano ma non osavano dire.

Poi, di colpo, il silenzio.

L’algoritmo mi ha cancellato. Non bannato ufficialmente - quello sarebbe stato troppo evidente, troppo difendibile. No, solo... silenziato. I miei contenuti smettevano di circolare. Le visualizzazioni crollavano. La reach spariva nel nulla.

È quella cosa subdola che la ricerca chiama “demotizzazione”. Solo che quando lo leggi su un paper accademico è un dato. Quando ti succede, è censura.

Quella sera, dopo che i miei reel erano stati shadowbannati, mio figlio mi ha visto guardare il telefono in silenzio. Troppo silenzio.

“Papà, perché sei triste?”

Come gli spieghi che qualcuno - no, non qualcuno: qualcosa, un algoritmo - ha deciso che quello che hai da dire non merita di essere ascoltato? Come gli spieghi che un pezzo di codice ha silenziato la tua voce?

“Non sono triste,” gli ho detto. “Sono arrabbiato. Ma è diverso.”

“Perché?”

“Perché quando sei triste, ti arrendi. Quando sei arrabbiato, vai avanti.”

La Scoperta
Quei due reel avevano fatto numeri che non avevo mai visto. Migliaia di visualizzazioni, centinaia di messaggi. Persone che mi dicevano “grazie per aver detto quello che penso ma ho paura di dire”. Persone che condividevano le loro storie. Persone che si sentivano meno sole.

Poi il silenzio algoritmico. E con esso, una scoperta.

Ho scoperto che non me ne importava niente dei numeri.

Non fraintendetemi - i numeri sono importanti. Sono il nostro lavoro. Misurano l’impatto, guidano le strategie, giustificano i budget. Ma non sono tutto.

Quello che importava era un’altra cosa: guardare mio figlio negli occhi e sapere che, almeno io, ci avevo provato. Che quando mi avesse chiesto “tu cosa hai fatto?” avrei potuto rispondere “ho parlato”.

Non avrei potuto rispondere “ho taciuto perché avevo paura di perdere follower”.

La Scelta Che Facciamo Ogni Giorno
Ogni giorno, noi che lavoriamo con la comunicazione facciamo una scelta.

Possiamo lasciare che gli algoritmi decidano cosa vale la pena dire. Possiamo autocensurarci per mantenere la reach. Possiamo ottimizzare per l’engagement e dimenticare perché abbiamo iniziato a comunicare in primo luogo.

Possiamo convincerci che “è solo business” e che “la politica non ci riguarda”. Possiamo continuare a scrivere “BOMBA! 💣” su LinkedIn mentre le bombe vere cadono su persone vere. Possiamo fingere che il linguaggio che usiamo per vendere non abbia nulla a che fare con il linguaggio usato per costruire consenso sulla violenza.

Oppure possiamo fare una scelta diversa.

Possiamo ricordarci che le parole hanno un peso. Che il silenzio è una posizione. Che la neutralità è un’illusione. Che anche quando l’algoritmo ci silenzia, qualcuno - da qualche parte - sta ascoltando.

Possiamo decidere che non sono i numeri a guidarci. Sono le coscienze.

L’Unica Metrica Che Conta
McDonald’s ha perso $7 miliardi cercando di restare neutrale. Io ho perso reach parlando di Gaza. E allora?

C’è una metrica che nessun algoritmo può misurare. Nessun analytics tool può tracciare. Nessun report può quantificare.

È la metrica del riuscire a guardare i tuoi figli negli occhi e sapere che hai fatto la cosa giusta.

È la metrica del svegliarti la mattina e non provare disgusto per quello che hai scritto il giorno prima.

È la metrica del arrivare alla fine della carriera e poter dire “almeno io, nel mio piccolo, non ho contribuito a normalizzare l’orrore”.

Questa newsletter probabilmente non avrà l’engagement dei miei soliti contenuti. Le ricette di carbonara e i tips sul copywriting funzionano meglio. Lo so. Magari anche Substack ha i suoi algoritmi, i suoi filtri, le sue logiche di amplificazione.

Ma se quello che hai letto ti ha fatto vedere qualcosa che prima non vedevi, condividilo.

Non per fare numeri - quelli li facciamo con i gattini e i caroselli motivazionali.

Condividilo perché chi lavora con le parole ha la responsabilità di insegnare agli altri a leggerle. A decodificarle. A vedere oltre la superficie.

E se dopo averlo condiviso ti ritrovi shadowbannato anche tu, saprai di essere in buona compagnia.

Le Bombe e Le Parole
Le bombe le fermano i politici e i generali. Le trattative di pace, i cessate il fuoco, le risoluzioni ONU.

Ma le parole che costruiscono il consenso per quelle bombe - quelle possiamo smantellarle noi.

Una tecnica di manipolazione riconosciuta alla volta. Un eufemismo smascherato alla volta. Un “BOMBA!” sostituito con “successo” alla volta. Una funzionalizzazione rifiutata alla volta. Una asimmetria terminologica evidenziata alla volta.

Non salveremo il mondo. Ma forse, un pezzo alla volta, possiamo salvare il nostro modo di guardarlo.

Anche se ci costa la reach. Anche se perdiamo i follower.
Anche se l’algoritmo ci cancella.

Perché alla fine, non sono i numeri a guidarci.

Sono le coscienze.

È guardare i nostri figli negli occhi e sapere che, almeno noi, ci abbiamo provato.

Grazie per essere qui.

Anche se l’algoritmo non vuole che tu lo sia.

Ale