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October 28, 2025

La TikTokketizzazione della serietà: quando tutto diventa macchietta

Ieri sera stavo scrollando Instagram. Mi è comparso il video di un candidato politico pugliese alle regionali. Lui serio, giacca e cravatta, che parlava con un personaggio in dialetto. Il classico format TikTok: 30 secondi, musichetta, battuta, fine.

Il bello - si fa per dire - è che la chiamo "TikTokketizzazione" ma poi TikTok non lo usano nemmeno. Usano TikTok su Instagram. Che è ancora peggio: prendono il format di una piattaforma e lo schiaffano su un'altra, pensando che il trucco stia nella forma e non nella sostanza.

Mi sono fermato. Ho guardato il telefono e ho pensato: "Ma davvero siamo arrivati qui?"

Poi mi è venuto in mente Carosello. Quella cosa che i miei genitori guardavano prima di andare a dormire. Quando la pubblicità era intrattenimento, sì, ma almeno aveva la dignità di essere fatta bene. Quando c'erano autori veri, sceneggiatori, comici che sapevano il mestiere.

E mi sono chiesto: quando abbiamo smesso di distinguere tra comunicare con leggerezza e fare il pagliaccio?

Carosello: quando i vincoli creavano qualità

Carosello non era pubblicità normale. Era un esperimento unico al mondo: 2 minuti e 15 secondi totali, di cui solo 30 secondi - il "codino" finale - potevano parlare esplicitamente del prodotto. Il resto? Intrattenimento puro. Storia completa. Narrazione che rispettava il pubblico.

La RAI lo impose così perché negli anni '50 c'era una fortissima resistenza culturale - sia cattolica che di sinistra - verso l'uso commerciale della televisione pubblica. La televisione era vista come uno strumento educativo e culturale, non un mezzo per vendere.

E paradossalmente, quei vincoli creativi - il dover raccontare una storia per un minuto e mezzo prima di poter svelare il brand - costrinsero gli autori a fare cose straordinarie. Non potevi dire "compra questo prodotto" per 105 secondi. Dovevi intrattenere davvero. Dovevi creare attesa. Dovevi costruire un mondo narrativo completo.

Pensa a come funzionava: avevi un minuto e mezzo per catturare l'attenzione, costruire personaggi, creare una situazione, far ridere o emozionare. E solo alla fine, come ricompensa per chi era rimasto a guardare, potevi dire: "Guarda, questo è il prodotto."

Era un patto di rispetto con chi guardava. Ti do intrattenimento di qualità, tu in cambio mi ascolti quando ti parlo del brand.

Il livello qualitativo era altissimo. Lavoravano su Carosello alcuni dei migliori creativi italiani dell'epoca. Registi che venivano dal cinema, sceneggiatori di talento, attori professionisti. Non era "pubblicità" vista come qualcosa di inferiore all'arte. Era arte che includeva la pubblicità.

La fine di un'epoca (e l'inizio della banalizzazione)

Carosello chiuse il 1° gennaio 1977, dopo esattamente vent'anni. Fu percepito come un "lutto nazionale." Ma perché chiuse?

Due ragioni principali. La prima: il contesto sociale era completamente cambiato. Gli anni '70 erano cupi - crisi economica, anni di piombo, terrorismo. Quella leggerezza spensierata non reggeva più il confronto con la realtà italiana.

Ma la seconda ragione è più interessante, e più preoccupante: i "persuasori" - i pubblicitari della nuova generazione - decisero che l'intrattenimento era una "distrazione." Che bisognava essere più diretti, più efficienti, più veloci. Che perdere un minuto e mezzo prima di parlare del prodotto era uno spreco.

Volevano creare un'associazione immediata al brand, senza passare dalla mediazione della storia. La pubblicità doveva diventare più "professionale," più "moderna," più "efficiente."

E così Carosello fu chiuso. E iniziò l'era della pubblicità diretta, quella che puntava tutto sul messaggio esplicito, sulla ripetizione, sull'impatto immediato.

Fu il primo atto di banalizzazione della comunicazione italiana. Cinquant'anni dopo, la TikTokketizzazione è solo l'ultimo capitolo di questa storia.

TikTokketizzazione: la performance senza sostanza

Oggi è l'opposto di quel patto.

La TikTokketizzazione - e chiamiamola con il suo nome - è l'esatto contrario del rispetto per il pubblico. È la performance immediata, la battuta forzata, la macchietta che cerca views a qualsiasi costo.

E il paradosso è che spesso non è nemmeno su TikTok. È "TikTok fatto su Instagram Reels." Prendono il format - la struttura, i tempi, le musichette, i trend - e lo replicano su altre piattaforme. Come se il problema fosse tecnico e non culturale.

È quel video del proprietario dell'azienda che fa il balletto perché "il consulente gli ha detto che funziona su TikTok." Ma poi lo pubblica su Instagram. O su Facebook. O su LinkedIn, che è diventato il nuovo circo del cringe aziendale.

Ma funziona per cosa? Per le views? E poi?

Perché questo è il punto che tutti dimenticano: le views non sono l'obiettivo. Sono solo un numero.

Un video può diventare virale per mille motivi: è divertente, è assurdo, è imbarazzante, è cringe. Ma far ridere non significa far votare. Fare engagement non significa costruire trust. Avere views non significa avere credibilità.

I dati delle elezioni europee 2024: quando i numeri non tornano

I dati delle elezioni europee 2024 in Italia raccontano una storia interessante che dovrebbe far riflettere tutti quelli che vendono "viralità" come strategia politica.

I politici che hanno usato TikTok (o meglio: TikTok-su-Instagram) hanno ottenuto engagement, certo. Hanno fatto views. Hanno avuto interazioni. Ma l'engagement non si è tradotto automaticamente in voti.

Il caso più emblematico è quello di Giorgia Meloni. Ha avuto il miglior risultato in termini di interazioni sulla piattaforma, ma - e questo è fondamentale - è stata l'unica tra i leader analizzati a NON usare le funzionalità tipiche della piattaforma.

Niente filtri divertenti. Niente musichette virali. Niente trend. Niente balletti. Niente macchiette. Solo contenuti diretti, seri, istituzionali.

Perché ha funzionato? Perché aveva già autorevolezza costruita altrove. L'algoritmo ha solo amplificato quello che c'era già: una persona seria, con un messaggio chiaro, che non ha bisogno di fare la pagliaccetta per essere ascoltata.

Per tutti gli altri - quelli che hanno provato a "fare i TikToker" per sembrare vicini al popolo, per sembrare moderni, per sembrare "della gente" - il risultato è stato: tante views, poca sostanza, zero fiducia costruita.

Le analisi post-voto hanno mostrato una cosa interessante: i contenuti che hanno generato più engagement erano quelli più polarizzanti, più emotivi, più "da social." Ma questi contenuti non hanno convertito in voti nuovi. Hanno solo confermato chi era già convinto.

Il problema non è la piattaforma. È la confusione tra viralità e persuasione.

Il paradosso dei consulenti improvvisati

E qui arriviamo a un punto dolente: chi consiglia queste strategie?

Vedo consulenti - spesso improvvisati, spesso giovanissimi, spesso senza alcuna formazione seria in comunicazione - che vendono questo alle piccole aziende, ai politici locali, ai professionisti: "Fai così, fai il balletto, parla in dialetto, diventa virale, poi vendono."

Il loro modello di business è semplice: volumi, velocità, prezzi bassi. Promettono risultati immediati ("Ti faccio diventare virale!") senza preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine sulla reputazione del brand o del politico.

E chi glielo ha detto che la viralità è l'obiettivo?

Perché nessuno si chiede: virale per fare cosa? Per costruire cosa? Per arrivare dove?

Un brand - o un politico - che diventa virale per le ragioni sbagliate sta facendo un danno enorme alla propria credibilità. E quel danno è molto difficile da riparare.

La responsabilità del consulente serio

Ti dico la verità: se un cliente mi chiedesse di fargli fare queste cose, direi di no.

Non perché io sia contrario ai social. Li uso. Li studio. Li insegno ai miei clienti. Conosco le dinamiche degli algoritmi, so come funzionano le piattaforme, capisco i meccanismi della viralità.

Ma c'è una differenza enorme tra usare i social in modo moderno e prostituire la propria dignità per l'algoritmo.

La comunicazione politica - e quella aziendale seria - non può basarsi sul principio del "facciamo il pagliaccio e vediamo che succede."

Perché poi quello che succede è molto semplice: perdi autorevolezza.

E quando hai perso quella, hai perso tutto. Puoi avere 100mila views, puoi avere 500mila interazioni, ma se nessuno si fida più di te, se nessuno ti prende più sul serio, a cosa ti servono quei numeri?

Il vero consulente di comunicazione dovrebbe proteggere il cliente da sé stesso. Dovrebbe avere il coraggio di dire: "No, questo non lo facciamo. Perché tra cinque anni te ne vergognerai. E io non voglio essere complice di questo."

Ma quanti lo fanno? Quanti hanno il coraggio di rifiutare soldi facili per proteggere la reputazione del cliente?

La pressione è forte. Il cliente vuole risultati immediati. L'algoritmo premia la performance immediata. I competitor stanno tutti facendo video stupidi e "sembrano funzionare."

Ma il lavoro del consulente serio è esattamente questo: resistere alla pressione del breve termine per costruire valore nel lungo termine.

Il test della dignità comunicativa

Prima di pubblicare qualsiasi contenuto - politico, aziendale, personale - dovresti porti queste cinque domande. E rispondere onestamente.

1. Tra 5 anni me ne vergognerò?

Immagina di guardare questo video tra cinque anni. Con gli occhi della persona che sarai diventata. Con la prospettiva che avrai acquisito. Pensi che ti farebbe piacere rivederlo? O penseresti "ma cosa stavo facendo?"

Se la risposta è "forse," la risposta è "sì." Non pubblicare.

2. Sto usando l'ironia o sto facendo la macchietta?

L'ironia è un'arte seria. Richiede intelligenza, cultura, tempismo, sensibilità. L'ironia vera fa riflettere mentre fa sorridere. Crea un cortocircuito cognitivo che apre nuove prospettive.

La macchietta è solo rumore. È la battuta facile, il tormentone ripetuto, la faccia buffa, la vocina ridicola. Non richiede talento, non crea pensiero, non lascia niente.

Se quello che stai facendo potrebbe farlo chiunque con uno smartphone, non è creatività. È imitazione.

3. C'è sostanza sotto la forma?

Togli la musichetta. Togli il filtro. Togli il trend. Togli il balletto. Rimane qualcosa di vero da dire? Rimane un messaggio chiaro? Rimane un motivo per cui qualcuno dovrebbe ascoltarti?

Se la risposta è no, stai facendo solo rumore.

4. Sto inseguendo le views o sto costruendo fiducia?

Queste sono due strade diverse. E portano a posti completamente diversi.

Le views sono facili. Basta fare qualcosa di stupido, di scioccante, di cringe. L'algoritmo lo premierà. La gente lo guarderà. I numeri saliranno.

La fiducia è difficile. Si costruisce lentamente. Si basa sulla coerenza, sulla competenza, sull'autenticità. Non ha metriche immediate. Non ti dà il rush di dopamina dei numeri che salgono.

Ma la fiducia è l'unica cosa che conta davvero. Perché è la fiducia che fa votare. È la fiducia che fa comprare. È la fiducia che fa durare.

5. Se mia nonna vedesse questo, capirebbe di cosa parlo?

Non nel senso tecnico. Non sto dicendo che tua nonna deve capire il linguaggio di TikTok.

Sto dicendo: c'è un messaggio abbastanza chiaro, onesto e diretto che una persona con buon senso capirebbe? O è solo una performance che ha senso solo dentro la bolla della piattaforma?

Se fallisci anche solo una di queste domande, fermati. Ripensa. Rifai. O meglio ancora: non farlo proprio.

Il paradosso dell'intelligenza artificiale

C'è un paradosso che mi fa sorridere amaramente in tutto questo.

L'intelligenza artificiale - quella vera, quella usata bene - potrebbe aiutare a fare comunicazione migliore. Più ricerca, più analisi, più strategia, più profondità. Potrebbe liberare tempo dalle attività meccaniche per concentrarsi sul pensiero strategico.

Ma invece sta diventando il turbo della banalità.

Perché? Perché costa poco, va veloce, produce "contenuti" (che brutta parola) in massa. E alimenta questa idea malata che fare volume sia fare qualità.

C'è gente che usa l'AI per produrre 50 video uguali al giorno. Stessa struttura, stessa battuta riciclata, stesso format. Cambiano solo le facce e le parole.

Ma il problema non è l'AI. È l'intenzione di chi la usa.

Se la usi per velocizzare la ricerca, per trovare insight più profondi, per analizzare dati che da solo non potresti processare, per testare varianti di messaggio mantenendo la qualità - è uno strumento potente.

Se la usi per produrre spazzatura più velocemente - è solo un'arma di distruzione di massa della dignità comunicativa.

L'AI amplifica. Se hai talento, lo amplifica. Se hai strategia, la amplifica. Se hai qualcosa di vero da dire, ti aiuta a dirlo meglio.

Ma se hai solo mediocrità, amplifica quella.

Cosa stiamo perdendo (e perché dovrebbe importarci)

Sai cosa mi fa più tristezza di tutto questo?

Non è vedere politici che fanno i pagliacci. Non è vedere piccole aziende che si prostituiscono all'algoritmo. Non è nemmeno vedere consulenti improvvisati che vendono aria fritta.

Quello che mi fa tristezza è vedere che stiamo normalizzando l'idea che per essere ascoltati dobbiamo sminuirci.

Che per essere rilevanti dobbiamo ballare. Che per essere credibili dobbiamo fare la macchietta. Che per essere moderni dobbiamo rinunciare alla serietà.

E non è vero.

La storia della comunicazione - anche quella commerciale, anche quella pop - è piena di esempi che dimostrano il contrario.

Carosello riusciva a essere popolare senza essere banale. Era leggerezza che non rinunciava alla qualità. Era intrattenimento che non insultava l'intelligenza del pubblico.

I grandi pubblicitari - da Bill Bernbach a David Ogilvy, da Alessandro Baricco a Oliviero Toscani - hanno sempre saputo che si può vendere mantenendo la dignità. Che si può essere popolari senza essere stupidi. Che si può usare l'emozione senza manipolare.

La poesia nella comunicazione non è un optional romantico. È la differenza tra vendere e manipolare. Tra intrattenere e prendere per il culo. Tra costruire fiducia e raccattare views. Tra durare e sparire.

Quando anche la politica diventa macchietta - quando chi dovrebbe governare si riduce a ballare per l'algoritmo - non è solo la comunicazione a morire.

È la possibilità stessa di un discorso serio. È il rispetto per le istituzioni. È la fiducia nella democrazia.

La domanda che dobbiamo farci

Quindi ti chiedo - anzi, ci chiedo, perché questo vale per me per primo:

La prossima volta che qualcuno ci propone di "fare quel video divertente," ci stiamo chiedendo se stiamo facendo comunicazione o stiamo solo facendo rumore?

La prossima volta che vediamo un politico che fa la macchietta, ci stiamo chiedendo se vogliamo davvero essere governati da qualcuno che ha bisogno di ballare per essere ascoltato?

La prossima volta che un brand fa il pagliaccio su Instagram, ci stiamo chiedendo se vogliamo davvero comprare da qualcuno che non si rispetta abbastanza da comunicare con dignità?

Perché noi - quelli che credono che si possa vendere mantenendo la dignità, che si possa comunicare senza sminuirsi, che si possa essere moderni senza essere banali - noi abbiamo il dovere di alzare il livello.

Non per snobismo. Non per nostalgia. Non per essere contro il progresso o contro i social.

Ma per sopravvivenza. Della qualità. Della serietà. Del rispetto reciproco. Della possibilità di avere ancora un discorso pubblico che non sia solo performance vuota.

Carosello era mercanzia vestita da poesia.

Oggi rischiamo di avere solo mercanzia che finge di essere intrattenimento.

E quando anche la politica diventa questo - quando chi dovrebbe governare si riduce a una macchietta virale - non è solo la comunicazione a morire.

È la democrazia stessa che diventa uno spettacolo. E uno spettacolo non ha bisogno di verità. Ha solo bisogno di views.

Alessandro Piemontese è consulente di comunicazione strategica e docente. Da vent'anni lavora con brand e istituzioni per costruire comunicazione che dura. Crede che si possa essere moderni senza essere banali, e che la poesia nella mercanzia non sia un optional ma una necessità.